La maternità nella narrativa di genere

Dopo un primo articolo introduttivo in cui ci siamo soffermati sulla gravidanza nella narrativa di genere, è il momento di passare oltre, dopo il parto, e parlare di maternità.

Lo abbiamo già accennato e tanto vale dirlo senza troppi giri di parole: le madri nella narrativa di genere, praticamente, non ci sono. Le madri sono rappresentate dalla loro assenza.

“While pregnancy is either monstrous or sacred, either body horror or the delivery of the chosen child, motherhood is defined by its absence. We aren’t characters: we are people-shaped holes. We are empty spaces or hollowed-out characters, whose sole purpose–when the story bothers to give us one–is to erase ourselves for the sake of our children.”

Da “On motherhood and erasure: people-shaped holes, hollow characters and the illusion of impossible adventures”, Aliette De Bodard

La morte

Il vuoto più profondo è la morte delle madri. Sembra che i personaggi principali (maschile voluto, perché mediamente il protagonista è il nostro caro Will) non possano avere una madre in vita: può avvenire alla nascita, durante la storia, fuori scena, ma sarà sempre un “inconveniente”. Qualcosa che merita appena qualche paragrafo, un po’ di dolore (ma non troppo eh!) del protagonista e si può proseguire. Se va bene, queste madri diventeranno spiriti motivazionali per i figli, altrimenti sono destinate all’oblio.

Per esempio Lily Potter nella saga di “Harry Potter” e la madre di Belle in “La bella e la bestia”. Oppure: qualcuno ricorda la madre dei fratelli Pevensie ne “Le cronache di Narnia”? O quella di Alice? Solitamente poi, queste madri vengono sostituite con figure con un differente tipo di autorità: zii cattivi, parenti indifferenti o violenti, governanti e balie intransigenti. I genitori adottivi amorosi sono mosche bianche.

Perché questa narrazione dovrebbe essere tossica? Perché così si svaluta il lavoro svolto dalle madri rendendolo superfluo, non necessario: sono rare le volte che l’enorme mole di lavoro che richiede l’educazione dei figli viene narrato.

Per fortuna c’è sempre qualcuno che cerca di ristabilire l’equilibrio sulla bilancia.

In “I reietti dell’altro pianeta” di Ursula K. Le Guin, i bambini vivono e crescono in comunità e il rapporto con i genitori non è privilegiato rispetto agli altri. “Per crescere un bambino occorre un intero villaggio” recita un antico proverbio africano, a riprova che educare i figli è un compito tutt’altro che facile.

Ancora, Le Guin indaga la maternità, questa volta adottiva, nel quarto libro della saga di Terramare: una Tenar ultracinquantenne (rarità nella rarità) adotta una bambina abbandonata e la cresce amorevolmente.

Madri, angeli del focolare

Se le madri non muoiono, sono personaggi bidimensionali, che non possono avere una storia diversa dalla cura dei propri figli, la cui intera personalità è annullata. Le motivazioni che le spingono all’azione ruotano attorno alla maternità stessa.

«Cʼè un personaggio, quello della Madre, cui invece non importa affatto aver vita, considerato lʼaver vita come fine a sé stesso. Non ha il minimo dubbio, lei, di non esser già viva; né le è mai passato per la mente di domandarsi come e perché, in che modo, lo sia. Non ha, insomma, coscienza dʼessere personaggio: in quanto non è mai, neanche per un momento, distaccata dalla sua parte».

Da Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello

Per questa narrazione, incarnata perfettamente nella donna giunonica romana ideale di donna e maternità, dobbiamo ringraziare gli antichi. Ma sarà nell’800 con le idee di Rousseau che raggiungerà la vetta più alta: con la pubblicazione di Emilio nel 1762, Rousseau concretizza le nuove idee sulla famiglia moderna, fondata esclusivamente sull’amore materno.

Grazie a Freud poi, con l’avvento della psicanalisi, la madre sarà anche l’unica e sola responsabile della felicità del figlio.

“La ragione è semplice: si aveva avuto cura di definire la “natura femminile” in modo tale che implicasse tutte le caratteristiche della buona madre. Così hanno fatto Rousseau e Freud che a centocinquant’anni di distanza elaborano entrambi un’immagine di donna singolarmente simile, sottolineandone il senso di dedizione e di sacrificio che, secondo loro, caratterizzava la donna “normale”. Imprigionate in questo schema da voci così autorevoli, come potevano le donne sfuggire a quella che si era deciso di definire la loro “natura”?”

Da L’amore in più, Storia dell’amore materno, Elisabeth Badinter

Madri e avventure: due opposti?

Un errore di fondo che frena la rappresentazione di eroine donne e madri probabilmente sta nel fatto di credere che queste non possano andar per avventure. Un po’ come si era visto per le donne incinte, sembra che vi siano degli ostacoli che impedisca alle personagge di muoversi verso l’azione: i figli. Certo, la maternità mette di fronte a delle necessità, proprie e della prole, che è sbagliato non considerare, ma bisogna tenere bene a mente che la madre “angelo del focolare”, di cui sopra, è uno stereotipo e, come tale, limitante nella sua rappresentazione della realtà.

Ancora una volta, precludere alle donne il vivere delle avventure, vuol dire dar loro una dimensione, uno scopo, solo in quanto madri (e, spesso, mogli).

Nella sua pluripremiata trilogia “Terra spezzata”, N.K. Jemisin rende protagonista della sua saga proprio una donna, una madre. Lo fa mettendola in mezzo a un’apocalisse: Essun viaggia, combatte, vendica, salva. E il suo rapporto con i figli, la figlia in particolare, è centrale.

“For why shouldn’t a mother attempt to move heaven and earth to keep her children safe? It’s no different to the many thousands of women in our reality who flee their homes with their children. Yes, they’re fleeing wars or climate chaos instead of seeking swashbuckling adventure but there is almost nothing a mother won’t do to ensure the survival of her children – and as story stakes go, that’s pretty high.”

Da The pram and the portal : Motherhood as depicted in science fiction literature di Rym Kachacha

Legato a questo primo stereotipo ce n’è un secondo, forse più facile da “capire” perché ha una componente emotiva: una madre può proteggere i propri figli da qualunque cosa. Quindi, dove sarebbe il conflitto per il protagonista?

Qui è facile vedere l’errore in questo pensiero: una madre non può salvare e proteggere i figli da qualunque cosa. Vorremmo, in una certa misura, ma allo stesso tempo sappiamo che non è possibile. Oltre che umanamente (per quanto una ci provi, difficile salvare i figli dall’orrore di una guerra, di una catastrofe ambientale o di una malattia) anche e soprattutto per una questione educativa. Parte della genitorialità sta proprio nel capire quando lasciare che i figli si stacchino e vadano per la loro strada, che esplorino li mondo e poi, se lo vorranno, lasciarli tornare. Anche se si vorrebbe, nonostante tutti gli sforzi, è impossibile preparare i figli a ogni sfida che la vita ha in serbo per loro. Grande o piccola che sia.

Insomma, quello che bisognerebbe capire e accettare è che ognuno ha il proprio percorso di crescita e di formazione e non sarà una madre amorevole a ostacolarlo. Dare la colpa alle madri per una mancanza di libertà di andare all’avventura è solo scegliere un capro espiatorio per l’assenza di tridimensionalità dei vostri protagonisti.

In conclusione, c’è anche da dire che non è scritto nella pietra o da nessun’altra parte che una madre non possa portarsi appresso la prole:

Perhaps it’s the ideas that pregnancy makes a woman delicate and small babies are vulnerable that lead to the assumption that mothers should stay at home instead of going on adventures, something Terry Pratchett challenges in his Discworld novel Carpe Jugulum. When the witches of Lancre are tasked with removing the vampires who’ve moved in next door, Magrat has a new baby to look after so she and Nanny Ogg simply pack up everything the little one needs and take it with them.

Da The pram and the portal : Motherhood as depicted in science fiction literature di Rym Kachacha

Detto fatto, si parte per l’avventura!

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