Gravidanza e nascita nella narrativa di genere

Questo sarà il primo di una serie di articoli dedicati a gravidanza, nascita e maternità nella narrativa di genere. Speravo di riuscire a realizzare una piccola guida in grado di rispondere a diverse domande su questo aspetto, ma nella mia ricerca mi sono resa conto che le lacune sono parecchie e la rappresentazione è terribilmente scarna.

Solitamente le madri nel fantasy e nella fantascienza non se la cavano troppo bene: o muoiono di parto dando alla luce il futuro prescelto, o vengono relegate a contorno, zittite in quanto semplici nutrici (sempre del futuro prescelto). Oppure scompaiono, diventando delle madri assenti la cui unica eredità lasciata alla prole sarà un trauma infantile legato proprio alla loro assenza. In non pochi casi, si sacrificano e muoiono per salvare il neonato (un certo maghetto ne sa qualcosa).

Infine, e forse è la narrazione più nociva in assoluto, è la conclusione della loro storia, del loro arco di trasformazione, il loro happy ending – perché si sa: la donna può trovare felicità e appagamento solo nella gravidanza e nella maternità (n.b. ovviamente sono sarcastica).

Un vuoto da riempire

Uno degli aspetti più trascurati dalla narrativa di genere è certamente la gravidanza. Quei nove mesi in cui la donna subisce modifiche fisiche e psicologiche tali da poter spendere fiumi di inchiostro sembrano non interessare particolarmente – se non a livello politico.

Qui mi riferisco ovviamente a una sequela di libri, in testa a tutti la serie de “Il trono di spade” di George R.R. Martin dove dinastia e sangue sono tutto. Dove stuoli di figli illegittimi cercano di rivendicare diritti, titoli e troni. Ma a conti fatti in queste narrazioni la gravidanza in sé non ha un ruolo centrale per l’arco di trasformazione delle personagge, quanto la maternità che ne consegue.

In un articolo per il The Guardian, la scrittrice Bethan Roberts scrive:

“When I was in the throes of pregnancy and early motherhood, I felt really angry about – well, everything, really – but particularly about the fact that, for the first time in my life, fiction seemed to have let me down. When I was a lonely child, a poetic teen, a confused young woman, there seemed no end of fictional representations of my plight. Where were the heroines going through what I was experiencing now? Pregnancy and childbirth were often reduced to an ellipsis, a gap between sections or even paragraphs. There were plenty of non-fiction books ready to tell me how it should be. But where were the novels that could tell me how it actually was?”

Da The top 10 novels about childbirth di Bethan Roberts

Devo essere onesta, mi sono ritrovata nella medesima situazione. Scaffali pieni di saggi, molti scritti da uomini, che spiegano tecnicamente cosa succede al corpo della donna, cosa l’aspetta una volta in sala parto, una volta puerpera. In maniera molto chiara, ma senza emozioni, senza vissuti, senza lacrime di gioia o dolore. E forse è la cosa più spaventosa.

“Quando si diventa madre, è sempre la prima volta; per la donna che vive questa esperienza ciò che è davanti a lei e che deve avvenire è terra sconosciuta, terra d’ombra, e lo resterà a dispetto di ogni tecnica e sapere scientifico.”

Da Nell’intimo delle madri di Sophie Marinopoulos

Questo perché siamo fondamentalmente una società in cui manca il passaggio di competenze e di “saper fare” tra generazioni femminili. Per secoli gravidanza e parti sono state “faccende da donne”: nell’iconografia tradizionale è più facile trovare ostetriche, medichesse e ancelle intorno alla partoriente, di certo non mariti o uomini. Il sapere scientifico, il sapere che per secoli è stato esclusivo appannaggio degli uomini, ha espropriato con la propria parola autorevole il sapere femminile e del corpo.

È qui, in questo vuoto, che la narrativa di genere dovrebbe avere il coraggio di entrare in gioco, di esplorare, di raccontare attraverso le bugie della fiction, questa esperienza. Perché se si è in grado di immaginare schemi e gerarchie magiche, mondi in altre galassie, alieni e androidi, forse non bisognerebbe essere spaventati da qualcosa di tanto fondamentale quando la gravidanza e la nascita di un nuovo essere umano (o alieno).

“Vivere l’attesa in modo partecipe, trascriverla nella memoria, evocarla, rievocarla e condividerla configura la possibilità di una parola femminile, non basata sulla mimesi o la contrapposizione con l’altro sesso, ma sulla specificità del nostro essere al mondo.”

Da L’ospite più atteso di Silvia Vegetti Finzi

Esempi virtuosi

La narrativa di genere ha certamente degli esempi di rappresentazione di personagge incinte degni di nota, alcuni anche abbastanza datati. Già nel 1988 Rachel Pollack nel suo “Unquenchable Fire” sovverte il tropo del “prescelto” e racconta la storia di una donna rimasta incinta di un bambino destinato a cose straordinarie.
La differenza sostanziale è il punto di vista: quello della madre, non del futuro bambino, non di qualcuno di esterno. E questa donna non ha intenzione di accettare il suo ruolo in silenzio, passivamente. Perché nella gravidanza e nel parto, di passivo, non c’è nulla.

In Sealed di Naomi Booth, la protagonista, incinta, scappa da una orribile piaga che ha colpito il mondo, cercando di trovare un posto sicuro per sé e il figlio non ancora nato. A riprova che la “debolezza” delle donne incinta è uno stereotipo e che va abbattuto.

Ancora, in Barrayar di Lois McMaster Bujold, Lady Cordelia Naismith Vorkosigan affronta la gravidanza, con diversi problemi ad essa legati (rischio della perdita del bambino, malformazioni, paura e dolore). Proprio la gravidanza è al centro dell’intreccio della trama e della guerra civile. Inoltre Cordelia, nonostante il suo stato “interessante”, non è passiva, bensì attiva nella vicenda e non solo in quando “utero con le gambe”.

Il filone distopico

Impossibile non citare “The Handmaid’s Tale” di Margaret Atwood e il filone che si è venuto a creare nella sua scia. Nel suo romanzo la Atwood ci ricorda quanto sia terrificante definire le donne solo in base alle loro capacità riproduttive. Eppure Offred, che non ha altra scelta che riprodursi (e poco altro) sotto il regime, ricorda con dei flashback il proprio passato e le gioie di quella maternità scomparsa, assieme alla libertà.

Un altro romanzo distopico che tratta di gravidanza e maternità è:

In Future Home of the Living God by Louise Erdrich women start to carry babies that mysteriously resemble earlier forms of human evolution, prompting a Handmaid’s Tale-type takeover of women’s bodies by the state. This is an evergreen topic, reflecting a pertinent anxiety in our own world as pregnancy is not yet independent of politics. Perhaps by imagining the worst a state can inflict on mothers we can equip ourselves with the activist tools to avoid such a situation?”

Da The pram and the portal: Motherhood as depicted in science fiction literature di Rym Kachacha

Non sfuggirà ai più che le penne impegnate a riempire questo vuoto rappresentativo sono nella maggior parte dei casi donne: forse perché il bisogno di rimettere in equilibrio la bilancia viene proprio da loro, dalla necessità di sentirsi rappresentate. Ma questo non significa che queste storie siano solo per loro, anzi! L’uguaglianza passa anche da qui.

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