Appropriazione esperienziale

Chi di voi ci legge con assiduità avrà notato che tutti i nostri articoli dedicati a narrativa e scrittura inclusive si rivolgono ad autori e autrici con poca dimestichezza con alcuni temi particolarmente controversi. Il motivo è ovvio: nessunə di noi possiede un bagaglio esperienziale universale. Nessunə ha vissuto ogni vita, ha affrontato ogni difficoltà o ogni discriminazione. Nessunə appartiene a ogni minoranza.

Di conseguenza, chi scrive deve spesso destreggiarsi nel pantano del vissuto altrui, prelevando alcuni eventi realmente accaduti ad altrə e depositandoli nella storia che vuole raccontare. Alle volte l’interfaccia è diretta: come quando si scrive la biografia di una personalità dopo averla intervistata, oppure si mettono per iscritto vecchi racconti di famiglia. 

Più di frequente scrittori e scrittrici devono affidarsi a fonti indirette, oppure a conversazioni casuali. Si sa: nessun aneddoto è al sicuro da unə scrittorə in cerca di spunti e ispirazione. Sebbene alcuni furti siano essenzialmente innocui (come affidare a un personaggio l’abitudine di tamburellare sulle ginocchia – notata da un ragazzo visto sul tram, oppure trasporre il racconto di una figuraccia avvenuta a una collega in ufficio); esistono temi che vanno approcciati con maggiore cautela. 

La cautela fa il paio con il rispetto; che nella scrittura si manifesta con l’utilizzo di un linguaggio appropriato e con l’ascolto delle testimonianze di chi li ha sperimentati.

Di entrambi gli aspetti ci siamo occupate in altri articoli, trattando di lingua inclusiva, appropriazione culturale e stereotipi. Ovviamente ci sarebbe ancora molto da dire: sulla onnipresenza della violenza di genere nei romanzi fantasy, per esempio; oppure sulla mal interpretata etichetta di “femminista” per indicare storie con protagoniste femminili. Dietro le polemiche che inevitabilmente si accendono ogniqualvolta si toccano questi argomenti sembra esserci una precisa volontà di confondere le acque, di infantilizzare, di delegittimare.

Si scrive (solo) di ciò che si conosce?

Il genere fantasy è l’esempio evidente del fatto che chi scrive non possa limitarsi al proprio vissuto. L’immaginazione è trasformativa e creativa, e sappiamo che non si lascia facilmente mettere in pastoie: vede volti nelle nervature del legno, animali nelle nuvole. Il problema nasce nel momento in cui si vuole scrivere di qualcosa che è immaginario per l’autorə, ma molto reale per altri e altre. Se il vostro personaggio è un agricoltore della Lucania, chi legge la sua storia si aspetta che faccia la vita dell’agricoltore della Lucania: per scrivere di lui, avrete dovuto documentarvi. Magari avete fatto quattro chiacchere con un agricoltore della Puglia, e il resto l’avete tratto da storie del nonno e qualche documentario.

Questo approccio è normale finchè si tratta di raccontare un mestiere, ma per qualche strano motivo viene convenientemente dimenticato quando c’è da raccontare personaggз appartenenti a minoranze razziali, non binari, con disabilità fisiche, o che affrontano eventi traumatici. Peggio ancora: quando si tratta di queste categorie, si sente gridare l’allarme della censura.

Ripetiamolo per l’ennesima volta: la censura è un esercizio di potere, vale a dire che viene fatta da chi ha il potere su chi non ce l’ha. E ora ditemi, nella bilancia del potere – da che parte stanno le donne, le persone con disabilità, quelle LGBTQ+? Da che parte stanno le persone che hanno subito violenza, o la subiscono tuttora?

Appropriazione esperienziale

Attenzione, non stiamo dicendo che un uomo non potrà mai scrivere di una donna, o viceversa. La letteratura è piena di esempi straordinari pronti a smentirci! Credeteci quando diciamo che non è in atto alcun complotto ai danni della narrativa mondiale per avere tutte storie dello stesso tipo (stranamente, rimarrebbero solo storie scritte da uomini bianchi che parlano di uomini bianchi. Esattamente come è stato per gli scorsi duemila anni).

Le voci che si levano dal lettorato chiedono proprio l’opposto: storie colorate, voci nuove e diverse. Sono le voci che finora erano state soffocate, le esperienze sottratte che ritornano a chi le può e le vuole raccontare con parole proprie.

Permettetemi un parallelismo per chiarire la questione.

È come andare a cena di amici tedeschi e vedersi servire delle lasagne debitamente modificate per incontrare il gusto tedesco. Se siete in buoni rapporti, lasciate correre e apprezzate l’omaggio. Se gli amici non sono poi tanto amici, e il resto della serata trascorre disquisendo del fatto che quella tedesca sia la vera ricetta, la cosa potrebbe farsi irritante. Giusto?

Ora, al posto delle lasagne mettete la cultura dei nativi americani. O una giornata qualsiasi nella vita di una ragazza di colore. O qualcosa di peggio. Che tipo di ospiti volete essere?

L’appropriazione esperienziale non è una scelta innocente.

Un passo indietro e uno avanti

Dal momento che rimuovere completamente un argomento non è la strada che vogliamo percorrere, ci restano due opzioni.

  1. Lasciare la parola a chi può raccontare un determinato evento o vissuto. In una cultura che ci spinge sempre a primeggiare, fare un passo indietro è un gesto rivoluzionario. Se siamo in posizione privilegiata, significa pubblicizzare storie che non avremmo mai potuto scrivere. Dare voce agli oppressi, per togliere spazio alla narrazione degli oppressori.
  2. Rendere un’immagine il più possibile vicina al vero dell’esperienza altrui. 

Questo secondo punto è particolarmente critico. Avrete capito che le buone intenzioni (e le ricerche online) non sono sufficienti a restituire uno spaccato onesto della vita di chi appartiene a una minoranza. Per vari motivi: il primo, è che le informazioni prodotte prima manu da poche persone spariscono in quelle della maggioranza (vedi la necessità del “passo indietro” di cui sopra). Secondo, le informazioni più comuni (cioè quelle prodotte dalla maggioranza) sono inevitabilmente fallate dall’essere fonti indirette; quando non sono falsificate in modo programmatico e/o politico.

È un problema complesso e una questione aperta.

Almeno nel mondo della scrittura esistono delle soluzioni – ma ve ne parleremo nel prossimo articolo.

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