L’italiano è una lingua sessista?
Le polemiche sulla lingua non sono una novità recente. Sarebbe strano se una componente tanto importante delle nostre vite non fosse oggetto di dibattito. La cosa che differenzia l’accesa discussione riferita al sessismo della lingua italiana, non è quindi il fatto che esista – ma che sia uscita dai circoli della metalinguistica e arrivata nelle strade. A oggi, sembra che tutti abbiano un’opinione in proposito; forse perché impuntarsi su questioni grammaticali è più facile che controbattere ad altre argomentazioni (come il divario di salario tra uomini e donne).
In realtà, questa percezione è sbagliata: rispondere alla domanda “L’italiano è una lingua sessista?” non è facile per niente. Lo dimostra la varietà delle discussioni disponibili in rete, un vero e proprio vaso di Pandora da cui esce di tutto (e di tutto il peggio). Armandomi di pazienza e di spirito inquisitivo, ho identificato le tre risposte più popolari all’annosa questione.
Il sessismo linguistico non esiste.
Così titola un articolo piuttosto iroso dell’ormai lontano 2014. Nella sua crociata contro (cito) “la barbarie commessa nei confronti della nostra bella lingua”, l’autore dell’articolo individua il nemico nella forma di alcuni sostantivi riferiti a mansioni tipicamente occupate da uomini: ministra, chirurga, presidentessa, ingegnera, etc. Il fulcro della questione viene identificato quindi nella natura dei suffissoidi (morfemi lessicali utilizzati come costituenti finali di una parola complessa), e in particolare dei suffissoidi agentivi. Esempi di suffissoidi agentivi sono: –aio (giornalaio, fornaio), –ista (elettricista), –tore (lavoratore).
Non riesco proprio a immaginare i “creatori della lingua” – chiamiamoli così – che hanno coniato alcune parole per mancare di rispetto alla donna. (…) Da noi la situazione è diventata perfino ridicola per arginare la presunta e inesistente discriminazione sessuale nella lingua – o uso sessista della lingua, quindi maschilista.
“Il sessismo linguistico non esiste”, dal blog Pennablu.it
L’articolo prosegue quindi facendo riferimento alla radice latina di ciascun vocabolo. L’autore sottolinea che non vi sia necessità di modificare un sostantivo etimologicamente maschile per declinarlo al femminile (e.g. prefetto, sindaco).
Si legge, in alcuni manifesti di natura politica o anche sui social media, frasi come “car* tutt*” e simili. Ora, siamo seri, per una volta siamo seri, ma come si legge una frase del genere? Come si pronuncia? Il maschile, in quei casi, vale per tutti, uomini e donne. Un asterisco è impronunciabile e blocca la lettura. Ricordate il famoso “Signore e signori, buonasera” dei presentatori televisivi? Mossa più intelligente, sicuramente. Pensate a quanto sarebbero stati ridicoli se avessero detto “Signor*, buonasera”…
“Il sessismo linguistico non esiste”, dal blog Pennablu.it
Queste frasi (in apertura all’articolo) pongono l’accento su un’altra questione, ovvero l’utilizzo del maschile neutro (anche detto maschile inclusivo). Il che ci porta alla seconda opinione dominante…
L’italiano ha una struttura intrinsecamente sessista.
Il maschile inclusivo è l’utilizzo del genere grammaticale maschile in riferimento a gruppi misti, o di cui non si conosce la composizione.
Siamo tutti d’accordo sul fatto che una classe composta da venti ragazzi e una ragazza sia una classe di studenti. Ribaltiamo la situazione: perché una classe di venti ragazze e un ragazzo è sempre una classe di studenti, e non di studentesse? (…) Tutti noi usiamo la lingua italiana ogni giorno senza però soffermarci più di tanto a riflettere sull’importanza delle scelte linguistiche che effettuiamo, insieme a quelle di tutto il sistema linguistico, per mostrare o celare la rappresentanza femminile.
“Siamo quello che diciamo: il sessismo nella lingua“, dal blog BOSSY
In altre parole, il maschile inclusivo toglie visibilità o rimuove la componente femminile, di fatto evocando la presenza di esseri maschili (perché, dal momento che la grammatica italiana non prevede l’utilizzo del caso neutro, il maschile rimane appunto maschile). Questo rende l’italiano una lingua sessista.
Il sistema dell’italiano non è sessista, ma è sessista la norma.
In questa sezione farò principalmente riferimento allo splendido articolo di Francesca Dragotto (che vi invito a leggere per intero) per prendere in esame i due elementi che tornano più spesso nella discussione: maschile inclusivo e agentivi. Per inquadrare meglio il problema, facciamo un passo indietro – ai giorni in cui il calderone indo-europeo era ancora in piena ebollizione.
Come si forma il genere in una lingua?
Il processo di evoluzione della famiglia indo-europea che ha portato alla codifica dei generi ha seguito due stadi. Dapprima una separazione tra animato e inanimato (a due generi), successivamente una ripartizione dell’animato in maschile e femminile (a tre generi).
Di per sé, l’attribuzione di un genere non è necessaria per il funzionamento di una lingua – sono più numerose le lingue che non ne possiedono! – e in effetti, per la stragrande maggioranza dei viventi, l’uomo non ha alcuna necessità a distinguere i maschi dalle femmine. Gli animali di cui ci interessa il sesso sono pochi, e non vengono identificati con una variazione di genere, ma con un sostantivo del tutto diverso (es. maiale/scrofa, ape/fuco, toro/vacca…).
Che rapporto intercorre tra genere grammaticale e sesso?
Spesso l’attribuzione di genere sembra seguire criteri arbitrari. Per le lingue che lo possiedono, il neutro era originariamente continuazione del genere inanimato, poi utilizzato anche per identificare il cucciolo della specie di riferimento (indifferente che si tratti di umani o animali). In altre lingue, il genere inanimato si è scisso in maschile+femminile: per esempio, in italiano Sole è maschile e Luna femminile, mentre vale l’opposto per il tedesco.
È invece difficile valutare se il fatto che sia il maschile a realizzare entrambi i generi quando questi si trovano in opposizione (il maschile neutro o inclusivo di cui sopra) sia un mero “fatto tecnico” o piuttosto “imposizione di griglie maschili alla lingua in una situazione culturale dominata dal patriarcato”. Si sarebbe quindi portati a pensare che l’esistenza stessa dei generi grammaticali sia una struttura sessista, inerentemente volta a scindere la realtà in dicotomie.
Possiamo però escludere l’esistenza di correlazione tra esistenza (o assenza) di genere grammaticale e sessismo. Infatti, oltre ai generi maschile/femminile cui siamo abituati, ne esistono altri (ne avevo già parlato qui) o diversi. Per esempio,
In navaho ci sono tredici generi: esseri vivi, oggetti rotondi, oggetti riuniti in insieme, contenitori rigidi con contenuto, oggetti compatti, oggetti che somigliano al fango, massa, ma nessuno distingue maschile e femminile. (…) Perciò no, in sé non c’è correlazione tra genere e sessismo. Ciò non toglie che il sessismo passi anche attraverso il genere e che alla base dell’elezione del maschile a genere non marcato possa aver agito una mentalità in cui dominante era quanto connesso con la patrilinearità.
“La grammatica è sessista”, nel sito Grammatica e sessismo
Genere e significato, ovvero la questione degli agentivi.
Torniamo alla definizione di agentivo.
Gli agentivi sono considerati come nomenclatura per la classificazione di persone partecipanti a funzioni, posizioni, attività, titoli, ruoli, partiti politici o gruppi di tutti i tipi esistenti all’interno della società. I singoli termini appartengono alla lingua soltanto in quanto usano i suoi mezzi linguistici, ma rispecchiano, di fatto, differenziazioni extra-linguistiche indipendenti dalla lingua. (…) L’esistenza stessa di un agentivo al femminile o al maschile dipende dal fatto che donne e/o uomini svolgono attività. Sembra che questo fosse proprio il caso durante tutto il tempo in cui uomini e donne occupavano sfere diverse nella società e non entravano in concorrenza fra di loro. Ne sono prova agentivi al femminile creati in assenza di termini al maschile, come casalinga, levatrice, diva, ecc.
Burr, Elisabeth (1995): “Agentivi e sessi in un corpus di giornali italiani”, in: Marcato, Gianna (ed.): Dialettologia al femminile. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Sappada/Plodn (Belluno), 26.-30.06.1995. Padova: CLUEB 349-365.
Accanto agli sostantivi al femminile creati ad hoc, abbiamo quindi gli agentivi terminanti in –essa. Il formante –essa si sarebbe reso necessario per riferirsi alle mogli di uomini che ricoprivano il ruolo indicato dalla base, in epoche in cui tali ruoli erano preclusi alle donne. Presidentessa, generalessa, sindachessa e via dicendo indicavano quindi rispettivamente la moglie di un presidente, un generale, un sindaco. In epoca più recente, il suffissoide è stato riutilizzato per indicare mansioni finalmente accessibili alle donne (dottoressa, professoressa, poetessa). L’agentivo mantiene quindi in sé un retaggio discriminatorio, ma è ormai entrato nel linguaggio corrente della massa parlante: una sua eventuale modifica “suonerebbe” artificiale? E soprattutto, basta questo a dichiarare che l’italiano sia intrinsecamente sessista?
La situazione cambia, però, dal momento che sempre più donne entrano in territori una volta dominati dagli uomini. Da allora, si usa il termine al maschile anche per il referente femminile se non si lo “femminilizza”, rilevando così l’eccezionalità del fatto. Per i maschi, invece, il principio della terminologia viene rispettato, anche per quelli che prendono ruoli prima riservati alle donne. Infatti, in questi casi non si verifica mai che il termine al femminile venga applicato anche al referente maschile, ma si creano subito termini specifici come casalingo, ostetrico, divo, ecc. I linguisti stessi giustificano questa dissimmetria cercando rifugio, nella teoria e nelle grammatiche, nel valore intensivo del femminile ed estensivo del maschile, indicandoli come fatti sistemici della lingua.
Burr, Elisabeth (1995): “Agentivi e sessi in un corpus di giornali italiani”, in: Marcato, Gianna (ed.): Dialettologia al femminile. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Sappada/Plodn (Belluno), 26.-30.06.1995. Padova: CLUEB 349-365.
In conclusione, il sistema italiano non è sessista. Esso mette a disposizione del parlante mezzi e procedure per una denominazione equa di tutti gli agenti. Piuttosto, sessista è la norma: la realizzazione tradizionale e socialmente determinata del sistema che attribuisce valore primario al maschile e ne rende quindi estensivo il significato.
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