Alla ricerca della lingua più difficile al mondo
Imparare una nuova lingua è spesso legato all’apprendimento del suo vocabolario. In base a questo metro di giudizio l’inglese, con le sue quasi 890 000 parole a fronte delle 270 000 unità lessicali dell’italiano, dovrebbe essere estremamente difficile da apprendere. Tuttavia, il lessico comune di un adulto di madrelingua inglese prevede solo 20 000 parole, le regole grammaticali sono semplici, e i problemi di spelling impallidiscono accanto ad altri esempi europei.
Per esempio, il francese ha ben 13 modi di scrivere il suono inglese “o”: o, ot, ots, os, ocs, au, aux, aud, auds, eau, eaux, ho e ö. Lo spagnolo presenta sei forme di tempi verbali rispettivamente al presente, al preterito, imperfetto, futuro, condizionale e congiuntivo. Tedesco, greco e latino hanno tre generi (maschie, femminile e neutro).
Abbandonando l’Europa, troviamo linguaggi in cui le vocali sono accompagnate da toni. Il mandarino ne ha quattro, perciò un suono come ma assume quattro diversi suoni (per un occidentale quasi indistinguibili) e significati. Il numero di toni sale fino a sei per il cantonese, e sette o otto per altri dialetti cinesi Min.
La faccenda si complica ulteriormente considerando le consonanti. Alcune compaiono più o meno in ogni linguaggio (p, t, m, k e n), ma il mondo consonantico è ampio e variegato. Solo in base al loro luogo di articolazione, per esempio, le consonanti si dividono in dentali, palatali, velari, glottidali, faringali… Così accade che una lingua come l’ubykh (parlata in alcune zone della Turchia fino alla sua estinzione, nel 1992) registri fino a 78 suoni consonantici.
Forse però i suoni più esotici sono le consonanti clic, ovvero consonanti non polmonari prodotte facendo schioccare la lingua contro il palato o contro i denti. Sono tipiche di alcune linguaggi dell’Africa meridionale, come il xhosa, lo zulu e il sesotho.
Per complessità sonora, una lingua spicca su tutte le altre: il !xóõ, con i suoi circa 4200 parlanti, prevede quattro toni, vocali piane, faringali, stridenti e aspirate, cinque clic principali e diciassette clic di accompagnamento. La padronanza di questi suoni è accompagnata dalla formazione di un nodulo alla laringe!
Ecco come suona il !xóõ parlato da un madrelingua!
Oltre ai suoni, ecco arrivare i problemi di grammatica. Qui alcune lingue europee tornano alla carica, come l’estone e i suoi 14 casi (a confronto, il latino impallidisce con i suoi 6). Alcune lingue slave obbligano il parlante a specificare se un’azione sia stata portata a termine o meno. In russo e polacco, “andare” richiede verbi diversi che specifichino se il viaggio sia stato compiuto a piedi, in auto, aereo, nave, o altro mezzo di trasporto.
Non dimentichiamoci il problema del genere. A dirla tutta, ha ben poco a che fare con il sesso (sarebbe difficile immaginarne ben 350, come nella lingua peruviana bora). Un esempio su tutti: la lingua australiana aborigena dyirbal prevede una classe di nomi per donne, incendi e altre cose pericolose.
E che dire di quelle lingue che obbligano lo straniero che le approccia a pensare in modo del tutto diverso? In kwaio, una parola come “noi” può intendere io e te, io e qualcun altro (ma non tu), noi due, noi pochi, noi molti, il tutto in modo inclusivo (noi, tu compreso) o esclusivo (noi, tu escluso).
Alcuni linguaggi richiedono parole che codificano informazioni a cui non penseremmo mai. Nel berik, parlato in Nuova Guinea, è obbligatorio specificare in quale momento del giorno sia avvenuta un’azione, e se il verbo implica un oggetto un’apposita desinenza ne specificherà le dimensioni o la posizione relativamente all’oratore. Così, telbener significa “egli beve di sera”, mentre gwerantena sta per “porre un grosso oggetto in un luogo basso e vicino”.
Ma forse il linguaggio più difficile al mondo è il tuyuca, originario dell’Amazzonia orientale. Nonostante un sistema sonoro con semplici vocali e poche consonanti nasali, il tuyuca prevede tra 50 e 140 generi (alcuni sono rari, per esempio la classe comprendente la corteccia che non aderisce a un albero, e che include anche i pantaloni cascanti), un “noi” inclusivo ed esclusivo, e soprattutto una desinenza verbale che obbliga il parlante a specificare la fonte di ogni sua affermazione. Per esempio, diga ape-awi significa “il bambino giocava a calcio – lo so perché l’ho visto” mentre diga ape-hiyi sta per “il bambino giocava a calcio – presuppongo”.
Vi immaginate provare a mentire in tuyuca?! O a tradurre da uno qualsiasi di questi linguaggi…
Se questo post vi ha incuriosito (e avete un buon livello di inglese), vi suggerisco di andare a leggere questo articolo, apparso sul Guardian nel 2016, e di cui il post odierno rappresenta un riassunto. Prometto che sarà tempo ben speso!
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