Lettera aperta per l’ennesima guerra evitabile
Lo straziante conteggio delle guerre del mondo guadagna un’unità. È la prima guerra europea da trent’anni, e ci coglie increduli e impreparati.
Ero una bambina mentre si svolgeva l’ultima. Dei giorni di combattimento ricordo poco, ma sono stata testimone dei tentativi di giustizia successivi: la difficoltà di tirare fuori le parole, la verità ripiegata su sé stessa centinaia di volte, i racconti ingarbugliati dal rimpianto e dal lutto. Ricordo soprattutto mia nonna, che fu prima giudice donna dell’allora Jugoslavia. Sedeva di fronte alla macchina da scrivere e batteva decine di lettere indirizzate ai potenti della Terra. Dubito che una sola di quelle lettere sia mai arrivata nelle mani del suo destinatario, e per anni mi ha accompagnata lo sconcerto per quell’attività così insensata. Quello spreco di tempo.
Oggi finalmente capisco che non erano quelle lettere disperse nel mondo il vero spreco, ma l’ingiustizia che le rendeva necessarie.
Siamo abituati a considerare la violenza una opzione estrema. È una follia. Né la violenza, né la guerra (sua massima espressione) possono essere considerate opzioni di soluzione a un conflitto. Nessuna guerra ha mai portato una vera pace: sarebbe come chiedere alla notte di illuminare la strada. La notte conosce solo il buio, e la guerra conosce solo il reiterarsi di violenza.
Non lasciamoci ingannare: con buona pace di Sant’Agostino, non può esistere una guerra giusta. Una guerra è, ontologicamente, ingiusta. Il sacrosanto diritto di difendere la propria vita non può essere fatto alle spese di quella altrui: il prezzo non è nemmeno la vita che ho tolto, ma la mia stessa vita. Io sono te, e tu sei me. Uccidendoti, anniento me stessa.
“Ma i tentativi di dialogo hanno fallito”. No. Ha fallito (e non poteva essere altrimenti) un tipo di dialogo: quello del sopruso e della prepotenza. Quando mai minacce e inganno hanno portato a qualcosa di diverso dalla reiterazione di loro stessi? Prima riconosceremo che anche nel linguaggio si annida la violenza, il desiderio di prevalere sull’avversario e annientarlo; prima ci renderemo conto che il convincimento è un processo di ascolto e compromesso tra parti; prima saremo liberi di trovare soluzioni nuove, immaginifiche e condivise ai problemi che ci coinvolgono tutti.
Apriamo gli occhi, e riconosciamo la nostra co-responsabilità. Se cerchiamo il motivo per cui siamo arrivati a tanto; non dobbiamo guardare all’economia, alla storia o alla finanza. Tutte le forme di sopruso, dal colonialismo all’aggressione verbale, hanno qualcosa in comune: la disumanizzazione dell’altro. In ciò sta la nostra connivenza. Ogni aggressione sminuita, ogni vittima inascoltata, ogni morte evitabile è stata concessa da un sistema in cui l’ingiustizia è strutturale, in cui le persone non hanno tutte il medesimo valore. Fintanto che questa ingiustizia strutturale non sarà sanata, non stupiamoci se gli esseri umani partoriranno sempre nuovi modi di tormentarsi a vicenda.
Dobbiamo fermare questo circolo vizioso.
Pretendiamo che i soldati disertino, che i singoli abbassino le armi. Pretendiamo la disobbedienza. Pretendiamo l’educazione alla nonviolenza, la sola risposta che, storicamente, abbia mai condotto a una pace reale. Pretendiamo un linguaggio sincero, a servizio della verità. Pretendiamo giustizia restaurativa, non retributiva.
Questo è esattamente il momento di essere idealisti. Domani, sarà già troppo tardi.
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