Realismo magico: l’India multicolore di Salman Rushdie
Scoprire un luogo attraverso gli occhi di un autore che lì ha ambientato le sue storie è come avere una guida che ci porta per mano attraverso i vicoli, sia reali che mentali, di una città di carta e pietra. Dopo un primo tentativo nella piccola Oxford, e uno un po’ più serio nella Skopje di Luan Starova, un imminente viaggio in India mi ha portato alla scoperta della narrativa del sub-continente. Un’utile lista che mi ha guidato nella scelta del mio romanzo-guida, che recensisce i migliori libri di autori indiani tradotti in italiano è stata stilata dal blog indian-words. Spulciando il loro sito sono infine inciampata in un romanzo che mi ha tolto il sonno, che ho letto tutto d’un fiato mentre l’aereo mi portava da Milano a Delhi nella notte magica in cui Babbo Natale fa il suo giro – solo, nella direzione opposta.
Il romanzo
“I figli della mezzanotte” di Salman Rushdie è diverso da ogni altro libro abbia mai letto. Forse per il modo convoluto con cui sono composte le frasi, forse perché la storia è raccontata andando avanti e indietro, ogni evento è come un piccolo nodo su un telaio complesso, avanti e indietro, nel modo con cui, in Kashmir, si fanno meravigliosi tappeti. E in effetti anche questo racconto si apre in Kashmir (e sopra un tappeto), con la prepotenza dell’inevitabilità e della predestinazione. Una volta superato lo scoglio delle lunghe frasi contorte – in altre parole, una volta entrati nella mente del protagonista e accettatolo, con il grosso naso e tutto il resto – è impossibile non essere inghiottiti dal labirinto dell’India, dai suoi paradossi e vicoli ciechi.
La storia di Saleem Sinai, e da lui stesso raccontata, è infatti intimamente legata a quella della sua nazione. La sua nascita quasi miracolosa, profetizzata da indovini e celebrata dai giornali, avviene infatti il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento esatto in cui l’India perviene all’indipendenza. Questa straordinaria casualità dona a lui e ad altri mille e uno “figli della mezzanotte”, tutti nati in quell’ora incredibile, poteri soprannaturali – e lega le sue vicende personali a quelle del neonato stato.
In effetti in tutta la nuova India, il sogno che avevamo tutti in comune, nascevano bambini che erano solo in parte figli dei loro genitori – i bambini della mezzanotte erano anche figli del tempo; generati, capisci, dalla storia. Può succedere. Specialmente in un paese che è in sé una sorta di sogno.
Con un destino indissolubilmente legato a quello dell’India, ammanettato alla storia, Saleem ha tante, troppe storie da raccontare. Storie che lo dilaniano dall’interno:
E ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecci, una così fitta mescolanza di improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite, e per conoscermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto.
Perciò, Saleem ci guida attraverso gli eventi che hanno portato all’India moderna, dalla lotta per l’indipendenza alla nascita del Pakistan, allo stato di emergenza indetto da Indira Gandhi; vittima della storia e al contempo involontario artefice del suo, del proprio, destino. Mentre il protagonista tenta di capire sé stesso, noi tentiamo di capire sia lui che l’India, perché davvero, sono la stessa cosa.
Ma chi sono io? La mia risposta: sono la somma di tutto ciò che è accaduto prima di me, di tutto ciò che mi si è visto fare, di tutto ciò che mi è stato fatto. Sono ogni persona e ogni cosa il cui essere al mondo è stato toccato dal mio. Sono tutto quello che accade dopo che me ne sono andato e che non sarebbe accaduto se io non fossi venuto. E ciò non mi rende particolarmente eccezionale; ogni “io”, ognuno di noi che siamo ora più di seicento milioni, contiene una simile moltitudine. Lo ripeto per l’ultima volta: se volete capirmi, dovete inghiottire un mondo.
Non ho l’arroganza di dire che leggere questo romanzo mi abbia fatto comprendere i segreti meccanismi che muovono una cultura tanto diversa dalla nostra. Tuttavia è innegabile che le parole e le storie di Salman Rushdie mi abbiano fatto compagnia nelle strade di Delhi, nei quartieri poveri e in quelli ricchi, e che più di una volta nel corso del viaggio le sue frasi mi siano venute in aiuto, per aiutarmi a capire il senso di ciò che avevo davanti agli occhi.
Quel modo folle di raccontare mi è rimasto incollato addosso.
“I figli della mezzanotte” è imprescindibile dalla millenaria e vivissima tradizione di storytelling orale che pervade l’India, e che talvolta porta contastorie professionisti fino in Europa, a raccontare di uomini, animali e delle leggi non scritte che regolano le loro vite al trascorrere del tempo. Proprio a causa dell’innegabile componente soprannaturale che permea il romanzo, esso è stato definito di realismo magico. Una definizione che è un ossimoro, o un’ammissione: la realtà può essere magica, o forse vi è del magico nella realtà, nella visione frammentaria che torna unita grazie a un lampo di comprensione.
TITOLO: I figli della mezzanotte
AUTORE: Salman Rushdie
Traduzione di Ettore Capriolo
EDITORE: Oscar Mondadori
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