Sulla divisione in generi
Communication is impossible without the agreed code of a genre – A history of English Literature, Fowler.
Genres are agents of ideological closure: they limit the meaning potential of a given text – Cultural Studies, Hartley.
Oltre un anno fa mi venne chiesto di collaborare con una piccolissima azienda norvegese: questa aveva sviluppato un’applicazione per cellulari in grado di facilitare la scelta di un film all’interno di una vasta libreria online.
Della presentazione, mi aveva soprattutto colpito il metodo di ricerca: un calderone di definizioni, di tag, molte ripetitive, moltissime inutili.
Decisi che non andava.
Non era la prima volta che mi imbattevo nel problema dei generi, ma non mi ero mai scontrata con il problema pratico: il cliente deve scegliere. Il cliente deve avere i mezzi con cui scegliere. E questi mezzi devono essere intuitivi, condivisibili e largamente accessibili.
L’attuale divisione in generi, risponde a queste necessità?
La risposta è no.
Se il problema è sotto gli occhi di chiunque abbia mai fatto un giro in una libreria o in una cineteca, il perché è più sottile.
Per prima cosa, consideriamo che molti generi mancano ad oggi di una definizione univoca. Senza andare a perdersi nei meandri dei sotto-generi del fantasy (meritano un discorso a parte), basti pensare alla confusione generata dalle etichette “atmosferico”, “horror”, “paranormale”.
Pensiamo poi al fatto che, molto spesso (diciamo pure sempre) a un solo prodotto possono essere associate facilmente più etichette.
Il problema principale, però, è un altro: qualcuno decide cosa è cosa. La suddivisione potrà andare bene per Tizio, ma Kayo, proveniente dal Giappone rurale, ha tutt’altra idea su cosa sia “horror” e cosa non lo sia. Il background culturale è il grande spartiacque.
Come fare a superarlo?
Torniamo alla nostra minuscola azienda norvegese. La piccola azienda non si è posta il problema dei generi. In compenso, ha elaborato un utile istogramma in cui mostra il numero di download del suo prodotto in funzione della regione del mondo.
Sorprendentemente, il massimo è centrato sull’Europa. Ed ecco il problema: come estendere il proprio mercato all’estero?
Per me, che non sono certo un’economista, la risposta è univoca: è necessario cambiare il metodo di ricerca. Bisogna inventarsi parametri universali – e se questi non sono compatibili con la tradizionale divisione in generi, chissenefrega.
Ecco a voi un elenco dei generi consolidati (la fonte è Wikipedia).
Mano sul cuore: quanti ne conoscete?
Se questo fosse un articolo-invettiva verso il komplotto® dei parolieri venditori di fumo, mi fermerei qui. Onestamente, penso che l’elenco parli da sé.
D’altra parte però, le invettive non sono il mio forte, perché manco di sagacia. Mi trovo molto meglio a fare una cosa estremamente demodé: proporre soluzioni. Con metodo scientifico.
Secondo Paul Ekman, psicologo statunitense, sono sette le emozioni universali innate. Queste espressioni non dipendono dall’ambiente di crescita dell’individuo né dall’educazione ricevuta: sono comuni a tutti gli esseri umani. Inoltre, come dimostrato dagli studi di Ekman, poiché fanno capo a un’esperienza innata comune, esse sono immediatamente riconoscibili.
Si tratta di paura, gioia, tristezza, disprezzo, disgusto, rabbia e sorpresa.
Se usassimo questi tag, cosa succederebbe?
Rispondono ai problemi di intuitività e share, ma è fattibile?
Date un’occhiata al sito di Filmgrail, se ne avete voglia, e ditemi cosa ne pensate.
Poi guardate il grafico in figura e provate a inserire il vostro libro preferito. Il mio ha elementi di straordinario, una vena di tristezza e un sense of wonder che non sfocia nella paura. Che genere potrebbe essere?
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