Nuovi archetipi femminili: Lavinia

Quando ho scritto l’articolo su Medea, non immaginavo che sarebbe stato il primo di una serie. Ma mi sono resa conto che questi personaggi continuavano a parlare, che hanno troppo da dire per poter essere ridotti a una sezione. Quindi, ecco un secondo articolo dedicato alla (ri)scoperta di nuovi archetipi femminili, da condurre con noi nel decennio che comincia.

Contro Giunone

La donna giunonica, paradigma di maternità, è un archetipo che nasce in sordina. Lo ritroviamo a sprazzi nel mondo romano, di rado durante Medioevo e Rinascimento, ma riappare con forza nell’Ottocento. Torna a galla in piena Rivoluzione Francese, nella forma che ci portiamo dietro da allora, e in Italia si fa bandiera dei moti risorgimentali. 

Ma andiamo con ordine.

Cornelia, madre dei Gracchi

La Giunone romana è esemplificata da Cornelia, madre dei Gracchi: 

Cornelia presa su di sé la cura dei figli e dei beni, si dimostrò così avveduta, così amorosa e magnanima, che di Tiberio si disse che non aveva deliberato male, quando aveva scelto di morire in luogo di un tale donna. Tra coloro che desiderarono di sposarla vi fu lo stesso Tolomeo re d’Egitto, che si offrì di condividere con lei la corona. Ma ella rifiutò. Preferì restare vedova, e da vedova perse tutti i figli, tranne tre: una figlia che sposò Scipione il giovane, Tiberio e Caio. E questi allevò con tanta saggezza che la loro virtù fu stimata frutto di educazione più che di natura. 

Plutarco, “Vita di Tiberio” 

La condotta esemplare di Cornelia, dedita all’educazione dei figli per il bene della Patria, affascina molti autori successivi. Persino Dante la incontra nel Limbo; in compagnia di Lucrezia (“sposa virtuosa” che scelse la morte dopo essere stata violentata), Giulia (moglie affettuosa, pegno e strumento dell’accordo tra due rivali) e Marzia (che alla morte del marito si presentò a Catone, supplicandolo di riprenderla con sé per morire ed essere ricordata soltanto come moglie di lui).

Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.

Dante, “Inferno”: vv. 124-129.

Rousseau e l’evo moderno

Facciamo ora un salto in avanti di diversi secoli*. La data che fa da spartiacque è il 1760: qui rinasce il mito materno.

Da questa data in poi, aumentano le pubblicazioni in cui viene raccomandato alle madri di prendersi cura personalmente dei propri figli e di allattarli in vista del loro benessere fisico. Si comincia, quindi, ad avere interesse per l’infanzia. È da questi scritti che compare per la prima volta l’idea di un istinto materno o di uno speciale amore che la madre avrebbe per il figlio, amore che nascerebbe spontaneo e senza freni. È da qui che alle donne viene chiesto di essere soprattutto madri. L’amore materno è, quindi, non solo un nuovo concetto, ma viene anche esaltato come “valore nello stesso tempo naturale e sociale, favorevole alla specie e alla società”. In realtà ciò che lo Stato cercava di fare era di mettere un freno alla devastante mortalità infantile presente sul territorio. (…) Il bambino, per la prima volta, assume “valore di merce”, poiché ci si rende conto della sua “ricchezza potenziale”. “L’essere umano è diventato un genere prezioso per lo Stato, non solo perché produce ricchezze, ma anche perché ne garantisce la potenza militare.

“Retoriche e icone della maternità oggi”, tesi di Laurea di Ilaria Nassa.

È proprio in questo periodo che iniziano a diffondersi i paragoni tra donne e femmine di varie specie animali, volte a sottolineare come la maternità fosse un richiamo alla natura dalla natura stessa della donna. L’archetipo giunonico riemergeva in tutta la sua potenza, pronto a cambiare in modo radicale la società:

Moltissimi furono gli uomini che cercarono di convincere le donne a votarsi completamente alla maternità e tra le promesse di questi vi erano la felicità, un piacere indefinibile e pieno, un amore corrisposto da parte del figlio che sarebbe durato per sempre e, infine e non meno importante, maggiore fedeltà da parte dei mariti. Ma nel caso che le donne non fossero sensibili né all’argomento della salute né a quello della bellezza e della felicità, veniva aggiunto quello della gloria. Rousseau non esitava a solleticare la vanità femminile promettendo alle madri che avessero allattato “la stima e il rispetto della gente […] il piacere di vedersi un giorno imitate dalla propria figlia e citate da esempio dalle figlie degli altri.”

“Retoriche e icone della maternità oggi”, tesi di Laurea di Ilaria Nassa.

Maria Drago e Giuseppe Mazzini

Fortemente incentivato dal regime vigente, l’archetipo non tarda a cambiare pelle. I pionieri di questa nuova retorica sono Giuseppe Mazzini e sua madre, Maria Drago. Dalla loro fittissima corrispondenza leggiamo:

Maria Drago e Giuseppe Mazzini. Foto di proprietà di dearmissfletcher.wordpress.com

Ben comprendo e sento tutto con forza lo stato tuo, ma nonpertanto giova cercar di mitigarlo con la tua speciale forza d’animo, tanto a te particolare e che ebbe sempre a distinguerti, rendendoti superiore agli amari periodi di sventurate vicende…

Carteggio di Maria Drago e Giuseppe Mazzini, 11 luglio 1838

Questo speciale rapporto di amore e complicità descritto nel carteggio si instaura solo tra madre e figlio maschio. Le figlie appaiono fin da subito escluse da questo fenomeno. E quando i figli vanno in guerra, questo legame si rafforza ulteriormente, anche grazie a una propaganda massiccia.

Si creò quindi una stretta connessione tra madri e caduti in guerra. Furono fondati perfino riviste e giornali rivolti alle donne – un esempio è “La Donna Italiana” – che chiamavano le donne ad abbracciare gli ideali patriottici e a essere pronte a sacrificare i propri figli per il bene della patria. Ecco che si faceva largo un altro aspetto che andrà ad assimilarsi completamente alla figura della madre: l’idea di sacrificio. La madre, in nome di un ordine superiore e di un ideale, sacrifica i propri figli per il benessere di tutti i figli della Patria. L’idealizzazione della figura materna così delineata in questi anni fu la risposta all’esigenza di creare l’idea di una Madre Patria, di un’Italia unita sia territorialmente sia a livello comunitario. La madre che sacrifica i propri figli era la metafora perfetta per incarnare la figura dell’Italia che sacrifica i propri cittadini in nome di un benessere comune.

“Retoriche e icone della maternità oggi”, tesi di Laurea di Ilaria Nassa.

Il cerchio si è chiuso, Giunone è soddisfatta. Le sue donne si sono annullate nel sacrificio ultimo. 

Un nuovo archetipo femminile: Lavinia, ovvero La Figlia

“I am the king’s daughter” I said, thinking how the poet had called me that. “I will do as I will do, and the king will nod his head.”

Ursula K. Le Guin, “Lavinia”

All’archetipo di Giunone, voglio contrapporre un’altra donna del mito: Lavinia. Una figura traslucida, cui Virgilio dedica pochi versi, ma la cui voce viene raccolta da una delle più grandi autrici del nostro secolo. L’Eneide ce la presenta come oggetto di contesa matrimoniale; quando è presente, rimane in silenzio.

Latino non aveva figlio, non prole di maschi, 
per volere degli dei rapita nel sorgere della prima giovinezza. 
Sola restava nella casa e nella grande reggia una figlia, 
già matura per le nozze, nubile di anni pieni.

Virgilio, “Eneide” – Libro VII

Lavinia: la donna che brucia

Una giovane donna in età da marito, Lavinia. Avviata a essere moglie e madre, a incarnare quell’archetipo giunonico che la vorrebbe padrona del focolare. Ma accade l’impensabile:

Inoltre, mentre la vergine Lavinia brucia sugli altari 
pie fiaccole e sta vicino al padre, 
parve, orrore!, prendere fuoco nei lunghi capelli
ed ogni ornamento con fiamma crepitante incendiarsi, 
accese le chiome regali, acceso il diadema 
insigne di gemme; allora fumida un fulvo lume
la avvolse, e sparse l’incendio per tutto il palazzo. 
Ritennero questa visione terribile e meravigliosa: 
presagivano che ella sarebbe illustre di fama 
e di fati, ma che ciò annunziava al popolo una grande guerra.

Virgilio, “Eneide” – Libro VII, vv. 50-58

Lavinia prende fuoco. Diventa lei stessa fuoco. Ed è a questa Lavinia che Ursula K. Le Guin dedica pagine ardenti.

I felt flow into me from them a loving trustfulness, a flood of feeling that humbled my mind and yet gave me a sense of great and reliable support. I was their daughter, their pledge to the future, a powerless girl, yet one who could speak for them to the great powers, a mere token for political barter yet also a sign of what was of true value to us all. I stood among my people in silence when the ritual was done, all of us quiet as the birds that stand in hundreds at evening on the sea beach, seeming to worship together.

Ursula K. Le Guin, “Lavinia”

Lavinia è sacerdotessa della sua casa, una “che può parlare dei grandi poteri”, pedina in un conflitto politico – e tuttavia custode di ciò che ha valore universale, “segno di ciò che ha valore per tutti noi”. Ma soprattutto è figlia, “promessa, pegno al futuro”. Figlia di re: una donna che fa ciò che va fatto, “e il re annuirà con il capo”.

*Per una trattazione più dettagliata della retorica della maternità, rimando al già citato “Retoriche e icone della maternità oggi”, tesi di Laurea di Ilaria Nassa.

TITOLO: Lavinia

AUTRICE: Ursula K. Le Guin

EDITORE: Cavallo di ferro editore

“Lavinia” di Ursula K. Le Guin

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